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di Julio Monteiro Martins
Corpi forti e scuri hanno trovato lavoro per i loro muscoli e sudano mentre ascoltano ogni tanto i rigurgiti del capoccia, in una strana lingua senza cantici, fatta solo di ordini e dinieghi, urlata da una parte, mugugnata dall’altra. C’è tensione nell’aria, ogni sonno è all’erta. Le crepe sottili che preludono al crollo. Da un momento all’altro arriverà lo scricchiolio, il segnale di fuga. Ecco il mondo nuovo, pieno di recinzioni, una scacchiera rigata dal filo spinato. E le pedine che si muovono in continuazione tra un confine e l’altro, guadagnandosi a fatica da vivere: colibrì disperati a baciare ogni fiorellino secco. Daouda si alza dalla brandina molto prima dell’alba (chi non può darsi al lusso di rilassarsi mai non può dire che si sia svegliato), testa l’equilibrio del corpo, prova il peso dei muscoli, delle ossa, della nuova pelle conciata e aspra, delle cicatrici. Testa anche l’equilibrio sulla bicicletta, pedala tra arance e mandarini nella semioscurità fino ad arrivare – braccia tese, dita pronte – al campo dei pomodori. La tensione invisibile diventa un ronzio nelle orecchie, i timpani premuti dal sangue come in un’improvvisa emersione. È l’odio ciò che emerge dal silenzio, rompe gli argini, sommerge quei campi ora tinti dal colore dei pomodori maturi, come ogni paio di occhi furibondi lo denuncia. Si sentono spari secchi. Vicino a Daouda due uomini cadono, cosce e ginocchia perforate dai proiettili. Daouda si butta a terra e cerca di arrivare strisciando alla sua bici. Qualcosa non funziona questa mattina, c’è la guerra al posto della solita fatica. O meglio, c’è una fatica diversa, ciascuno deve raccogliere se stesso al posto dei pomodori. Da dove partono gli spari? Da dietro gli ippocastani? Da una casupola in fondo al campo? Dai SUV parcheggiati sul ciglio della strada, come in un safari clandestino? E cosa vogliono quei cecchini? Uccidere? Ferire? Spaventare il gregge? Mandare un messaggio in quel codice morse altisonante? In un salto Daouda inforca la bicicletta e parte. Appoggiata alla spalla ha una pala a mo’ di fucile. Gli spari e le urla non cessano. L’immigrato s’allontana dal campo di battaglia, la schiena un bersaglio sempre più difficile. Sulla strada spunta un SUV nero, venendo contro di lui. Si ferma. L’uomo che lo guida cerca il fucile dietro il sedile. Daouda accelera, pedalando forte, le narici dilatate pompano l’aria fredda della terra del nemico. Una mano ferma sul manubrio, mentre l’altra alza il manico della pala. Quando l’autista, fucile in mano, si gira verso di lui, la pala colpisce il parabrezza, l’attraversa tra le schegge come il rumore di pelle che si strappa, di tamburo che si rompe, conficcandosi dove prima c’erano la bocca, le mascelle. Come fa una pala a scavare un uomo? Lì dove non ci sono tesori, né radici, né tombe future? Cosa scava questa pala tra i frutti della terra?
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