di Pina Piccolo
Oggi, venerdì 18 Giugno, José Saramago è spirato alle 12,30 nella sua casa di Lanzarote, all’età di 87 anni, a seguito di un cedimento multiplo degli organi, dopo una lunga malattia.
Lo scrittore è morto con al suo fianco la famiglia, andandosene in modo sereno e tranquillo.
Fondazione José Saramago
18 Giugno 2010
18 Giugno 2010
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Ma il grande Vecchio aveva un orecchio diverso, udiva il sussurro delle cose e questo non lo inquietava. Altri erano stati condotti alla follia da quelle voci insistenti, lui no le ascoltava e registrava nel magma della scrittura, senza tentare di domarle col logos delle virgole e dei punti. E poiché era in grado di percepire lo spirito delle cose tendeva a non scindere la scrittura dalla vita, tutto diveniva un grande contenitore che tendeva verso qualcosa di libero e di giusto. Osservava quello che lo circondava e cercava di carpirne i segni, di respirarne la metafora. E in questo forse si differisce dai monologhi interiori, dai flussi di coscienza di altri grandi scrittori europei il cui magma è meno radicato nella terra e riproduce i meandri cerebrali di un’Europa che ha perso il contatto con ciò che è materiale, che ha eletto la mente e la coscienza ad elemento superiore, che insiste nella scissione tra spirito e corpo. Forse quell’Europa che per la lontananza da quelle radici pone l’ordigno al centro della terra, secondo la descrizione di Svevo di cento anni fa, ma oggi ancora più che attuale. Ma Saramago, anche nello scemare dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine veraci nel suo sangue che lo portavano a un lento cessare della vita per mancanza di ossigeno alle cellule e proliferare di infezioni forse legge dei segni. Chissà, non mi stupirei se forse un giorno trovassimo un suo scritto in cui dialoga con la malattia.
Su YouTube, qualche settimana fa, ho visto la sua commozione davanti a “Cecità” realizzato sulla pellicola, le lacrime di gratitudine verso chi era riuscito a far materializzare fedelmente sullo schermo ciò che lui aveva inteso sulla pagina. Credo che fossero anche lacrime malinconiche, regalate dalla coscienza dell’imminenza del distacco che lo avrebbe separato da quegli atti di creazione, dalla comunità di intenti che per 70 anni lo aveva legato a chi leggeva le sue opere, a chi ne facilitava la diffusione. Ricordo quelle stesse lacrime malinconiche dentro gli occhi acquosi di mio padre contadino, anche lui un vecchio ottantenne colpito dalla malattia che ti affievola a poco i sensi privando le cellule di ossigeno. Lui che di pagine ne aveva scritte poche, solo qualche riga per registrare in un italiano trasudante dialetto calabrese la saggezza degli antichi tramandata attraverso proverbi e storielle. Erano forse questi contadini gli ultimi eredi di quella unità del mondo che il Grande Vecchio cercava di imbastire sulla pagina. Non a caso ai suoi nonni aveva dedicato il Nobel assegnatogli per la letteratura. Parlando dei suoi nonni, contadini analfabeti, da lui definiti le persone più sagge che avesse mai conosciuto, ricordava con commozione che il nonno malato, prima di lasciare la sua casa per essere portato ad una visita dal medico della grande città aveva salutato i suoi alberi, si era diretto "di albero in albero del suo podere, ad abbracciare i tronchi, a congedarsi da loro, dai frutti che non mangerà più, dalle ombre amiche".
Per me che sono stata un’accanita lettrice, la cosa che mancherà di più sarà aspettare l’uscita del prossimo romanzo di Saramago, ma forse questa mancanza sarà un motivo in più per onorarne la memoria allenandomi in una scrittura tesa a sbavagliare il mondo e ripercorrerne l’unità.
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