di Patricia Viviana Quezada
Il nord-Africa trema, la collera dei popoli abbatte muri, statue e dittatori. Non è più tempo dei re. Qualcuno dice, gli inizi di secolo sono stati caratterizzati da cruente guerre. Possiamo dire che la grande massa di giovani che si riversarono sulle strade e travolsero le piazze, lo fecero perché non sopportavano l'idea di vivere un intero secolo nelle stesse condizioni d'oppressione e sottomissione dei loro genitori.
Attraverso gli interstizi di quella logora struttura di rancore, odio, paure, fondamentalismi, ignoranza e corruzione che avevano pazientemente tessuto i tiranni si è intrufolato con forza inaudita la conoscenza, la tecnologia, il sapere che porta alla consapevolezza di sé, del proprio essere individuale, legittimo diritto a una vita degna e libera. Una vita per la quale vale la pena morire. E così fecero. I “rivoltosi” decisero che non c'era un'altra scelta, il giorno della furia doveva compiersi.
Un paese dopo l'altro, in un lasso di tempo incredibilmente corto, si alzarono in piedi e scesero in piazza pacificamente con la compattezza e la compostezza d'un popolo con un’unica volontà.
C'era una situazione che però loro non avevano considerato e si presenta adesso, dopo le cadute di Ben Ali e di Mubarak, in simultanea con le rivolte nello Yemen, in Marocco, in Iran, nel bel mezzo del bagno di sangue della Libia. Non avevano considerato le conseguenze delle loro coraggiose rivolte, conseguenze che vanno più in là delle spiagge seminate di morti, dei bambini decapitati, dei morti nel deserto o nel fondo del mare, della furia pazza dei tiranni che chiamano “ratti” i sudditi e pianificano con gioia il loro annientamento. La peggiore delle conseguenze è la inappellabile accettazione che, malgrado le ipocrite dichiarazioni internazionali nei confronti del conflitto e di “come affrontare il dopo”, i nord-africani dovranno accettare come dato di fatto che sia loro sia tanti altri popoli in “via di sviluppo”, sono meno umani, o forse dotati di una percentuale minore di umanità che altri popoli. Umanità indiscussa invece per i fortunati individui che sono cittadini dei paesi che contano. Può sembrare sconvolgente questa affermazione ma come tutti potete vedere è questa l'unica spiegazione plausibile ai tanti atteggiamenti ambigui che hanno caratterizzato durante questi giorni le posizioni dei governi e delle persone del resto del mondo di fronte alla violenta risposta di Gheddafi alle manifestazioni pacifiche ma decise del popolo libico. Il “forse che sì, forse che no” che tappezza il salone dei cavalli, del castello del Duca di Mantova, si ripete negli attuali potenti, in bilico nel momento di prendere una decisione nella quale c'entrano gli interessi economici e i principi umanitari. Davanti un'opinione pubblica assuefatta e pusillanime non è difficile immaginare la scelta. Il valore della vita umana è molto relativo, lo sanno bene le Compagnie Assicurative. Se non fosse così, come si spiega che non si sia alzata, come un solo uomo, la comunità internazionale a condannare con orrore la carneficina che si sta compiendo adesso in Libia. Ormai tristemente sappiamo della inconcepibile crudeltà del comportamento umano, ma continuiamo a ripeterci che siamo una società “civile”, e una società “civile” dà lo stesso valore a ogni vita umana, non potremmo mica tornare indietro alla seconda guerra mondiale, quando i tedeschi uccidevano dieci italiani per ogni tedesco morto, e i russi facevano lo stesso nei confronti dei polacchi, vero? Sarebbe mostruoso. É ovvio che gli essere umani si rivoltano davanti al massacro di altri esseri umani. Ma se al posto di diecimila libici fossero morti diecimila italiani in una settimana? O diecimila tedeschi o americani? Cosa sarebbe successo? Cosa succederebbe se fosse Parigi la città sotto assedio? Cosa succederebbe se al posto delle sdraio sulle spiagge di Rimini e Riccione, oggi ci fossero file interminabili di tombe fresche di muratura, ogni una che accoglie il cadavere d'un giovane italiano che sognava la libertà. Cosa succederebbe?.
Patricia Viviana Quezada, Bologna, 27 di Febbraio 2011
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