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Biennale di Venezia 2011. Vittorio Sgarbi è diventato un’artista


di Lolita Timofeeva


Dopo alcune settimane passate dall’inaugurazione mi sto chiedendo: cosa ha fissato la mia mente di questa Biennale del 2011? Mi è rimasta impressa l’opera di Urs Fischer: la copia di “Rato delle Sabine” (di Giambologna) eseguita in cera in dimensioni naturali, una candela gigantesca che si scioglieva lentamente bruciando. Era come un verso alto triste e straziante. Vi era la vita dentro la morte, la sostanza nell’effimero, la pesantezza nella lievità.

Mi è rimasto impresso anche il padiglione Italia. Per la sua bruttezza. Si è sempre detto che i critici d’arte sono artisti mancati. Eccovi testimonianza: il padiglione Italia non è altro che un’installazione di Vittorio Sgarbi. La sua, probabilmente, è una provocazione, è l’arte concettuale, è una performance. Si è servito di opere di centinaia di artisti per esprimere il proprio estro creativo. Il “demiurgo” ha costruito un “Mercatone delle occasioni”, in quale le opere di artisti, anche validissimi, sembrano “in svendita totale”. È così che si accatasta la merce negli stock quando si deve svuotare i fondi del magazzino.



Dopo aver visto questo, per rifarmi gli occhi, sono andata al cimitero di Venezia. Era una visita programmata da anni ma sempre rimandata. Tempo fa avevo letto la descrizione di Josif Brodskij del cimitero di San Michele. Il poeta russo esiliato, innamorato di Venezia volle essere seppellito proprio lì, accanto a Pound e Stravinskij. Scriveva di Venezia: “Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi la torbida pupilla per l’ansia di fissare nel ricordo questo paesaggio, capace a fare a meno di me”.





Ho girovagato per il cimitero seguendo il mio istinto, finché non mi sono imbattuta in “Recinto XV Evangelico”. Entrai in un’atmosfera magica, abitata da spettri e fantasmi, vidi le radici degli alberi a profanare le tombe, i tronchi grossi dell’edera ad arrampicarsi come i serpenti sui crocifissi, i mezzobusto di marmo frantumati, le tombe sprofondate, scoperchiate. Un caldo torrido e gli urli.. Gli urli strazianti dei gabbiani che vi abitano, con i giovani pulcini a passeggiare in mezzo alla morte. Che tanto triste non mi è parsa in quel luogo abbandonato. Non ho provato ne il senso di lutto, ne amarezza, ne oppressione, ma l’attrazione per quel senso di trascendenza che si vive solo nei luoghi alti.





Pensai che Brodskij doveva essere colpito proprio da questa parte del cimitero e sicuramente avrebbe voluto essere sepolto proprio qui. Continuai a vagare in mezzo a questa “installazione” finché non ho trovato la tomba di Stravinskij, allora iniziai a cercare con insistenza quella del poeta russo. E la trovai. Era unica tomba diversa dalle altre: straripante di fiori e addirittura con un cappello bianco poggiato su un bastone. Sicuramente il poeta russo è molto visitato. Ma sono sicura che a Brodsckij questa opulenza in stile russo al limite del kich non sarebbe piaciuta. Sono convinta che la cosa che lo affascinò era proprio la metafisica del luogo, l’abbandono e l’ascetismo.

Sono tornata a Bologna soddisfatta. La visita del cimitero mi ha fatto vivere le emozioni che normalmente si provano per la Grande Arte.

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